Dovete sapere che io non ho sempre voluto fare l'attivista, anzi: solo all'idea provavo un senso di paura immane. Ero letteramente terrorizzato dall'idea di espormi in qualsiasi modo concepibile. Io in associazione ci sono entrato nel lontano marzo 2019, dopo più di un anno dall'assunzione di consapevolezza sul fatto che fossi una persona transgender non-binaria. In quell'anno mi ero solo creato un account facebook sotto falso nome che ricordo ancora: Wilhelm Vestergaard. Niente foto, quasi nessun amico su facebook; tenevo quell'account attivo solo per consultare quotidianamente un gruppo di persone trans* che contava allora 3500 membrə. Per un anno ho cercato di trovare il mio spazio nella comunità e vi confesso che i tempi erano diversi e che allora le persone non binarie non erano viste bene. Eravamo individui confusi, si parlava di transessuali, transessualismo, terapie ormonali: sembrava che uno spazio per noi di fatto non ci fosse. Nessuno allora riusciva a capire che il fatto che io volessi intraprendere un percorso di terapia ormonale non mi rendeva in automatico un, come si chiamavano allora in maniera del tutto errata, ragazzo FTM. Insomma, in quell'anno brancolavo nel buio. Una delle poche cose belle che mi capitarono nel 2018 fu un primo messaggio spontaneo da quello che poi diventerà uno dei miei amici più cari, Ethan Caspani, che mi diceva che, se avessi voluto, a Milano esisteva un gruppo di auto-mutuo-aiuto per persone trans*, che lì le persone non binarie erano ben accolte e che mi sarei trovato bene. Ethan mi stava offrendo la possibilità di una prospettiva che mi avrebbe permesso di capire di più me stesso e il mondo che stavo abitando. Contentissimo, chiesi come poter accedere al gruppo, ma scoprii ben presto che a quel gruppo non avrei potuto accedere, perché si teneva in momenti che per me erano lavorativi. Il 2018 fu un anno pesantissimo per me, vivevo con una routine ai limiti della sostenibilità umana: mi alzavo alle 6.00, alle 8.00 ero in università, alle 16.30 uscivo dall'università, tornavo a casa, mi cambiavo, alle 18.30 iniziavo a lavorare e mediamente finivo alle 00.30, arrivando a casa alla 1.00. Così, tutti i giorni. Non riuscii ad accedere al gruppo ama fino all'anno successivo, quando lasciai quel lavoro per trovarne uno che non intersecasse con il gruppo ama. Finalmente a marzo 2019 riuscii ad accedere al gruppo ama, che scoprii subito essere parte di un progetto più grande, chiamato "Progetto Identità di Genere", presso l'associazione (ormai non più esistente) RizzoLari. Mandai una mail e mi risposero molto velocemente: per accedere al gruppo avrei dovuto sostenere un colloquio conoscitivo. Mi presentai con largo anticipo al colloquio, seduto fuori da quel ristorante che è ormai da anni il nostro punto di ritrovo settimanale. In quel periodo ero così insicuro e terrorizzato da quello che vivevo che quando dovevo parlare lo facevo così a bassa voce che nessunə mi sentiva. Il che fu problematico in quell'occasione perché essendomi presentato al ristorante con largo anticipo quella era la quinta volta nella quale la cameriera si stava avviando verso di me per accertarsi che non stessi occupando quel tavolo a vuoto. Quella volta fu interrotta da una voce alle mie spalle che tuonò «Lui è con me»: vidi la cameriera dileguarsi e mi girai. Davanti a me, Laura Caruso, moderatrice del gruppo ama e, ad oggi, una delle persone che stimo in assoluto di più. Laura mi chiese di me, di cosa mi portasse lì. Con fatica, risposi. Lei mi disse che il gruppo stava per iniziare, che potevo accedervi e che, se mi fosse andato, avrei potuto partecipare alla canonica cena pre-gruppo. Risposi sì a qualunque cosa, mi sedetti al ristorante e cominciai ad inondarla di domande sulla Storia delle persone transgender. Buffo che quello fu l'inizio di un percorso di ricerca che mi ha permesso di ricostruire tutta la storia globale transgender ad oggi esistente e sulla quale sto scrivendo un libro. Al gruppo ascoltai attentamente ogni condivisione e ricordo che tornai arricchito a casa. Partecipai praticamente a tutti gli incontri per i due anni successivi, tartassando sempre tuttə di domande e riflessioni. A settembre del 2019, durante un gruppo, Monica e Laura ci comunicarono che avevano deciso di far confluire il progetto Identità di Genere in una nuova associazione, che si sarebbe chiamata ACET - Associazione per la Cultura e l'Etica Transgenere; sarebbe stata un'associazione che si sarebbe occupata di politica, cultura ed etica e ci comunicarono che cercavano attivisti, chiedendo a tutte le persone sedute di rifletterci su. Eravamo circa in 35, alla chiamata attivistica rispondemmo solo in due, mesi dopo: io e Alec Sebastian D'Aulerio. A gennaio 2020, esattamente una settimana prima del Covid, ACET fu fondata da 3 grandi personalità della scena attivistica italiana: Monica Romano, Laura Caruso e Daniele Brattoli. Sapete che numero di tessera sono? La 25. La mia domanda di ammissione all'ACET arriva nel luglio 2020, quasi un anno dopo che Laura e Monica ci avevano chiesto di riflettere sull'idea di fare attivismo. La verità è che quando mi sono iscritto ad ACET l'ho fatto per continuare a frequentare i gruppi ama e, al massimo, fare un attivismo di back-end e di manovalanza. Io l'attivista di front-end, come lo chiamo, non lo volevo proprio fare. Non lo volevo fare perché avevo la paura dell'Olocausto, che di solito definisco così: ə attivistə di front-end, cioè coloro che sono espostə in prima linea, sono le persone più a rischio. Il mio pensiero era che se fossi diventato un attivista di front-end e in futuro fossimo ricaduti in un regime, sarei stata la prima persona che sarebbero venuti a prendere. È questa la paura dell'olocausto ed è per questo che prima di ottobre 2020 io non ho mai, mai, voluto fare alcun tipo di attivismo espositivo: la verità è che volevo in caso di regime assicurarmi quella possibilità di finestra temporale di passare il confine del Paese e scappare. Poi, a ottobre 2020, un messaggio di Laura:
«Non so se riuscirò a dirlo con le parole migliori, è successo qualcosa che non vorremmo mai succedesse. Mei è mancata. Noi diciamo “è mancato”, è “mancata”, ma le parole sono importanti e gli eufemismi talvolta intollerabili: Mei si è suicidata, questa è la realtà cruda che noi a volte inquadriamo quando diciamo che "il tasso di suicidi nella comuntà transgender è più alto rispetto alla media". Non ho risposte e, forse, neppure più domande, ma solo una grande, infinita tristezza.»
Io Mei la conoscevo. Mei aveva 19 anni, si era appena iscritta alla facoltà di economia. Frequentavamo i gruppi insieme, andammo insieme al Pride del 2019. Mei non c'era più. Io questo lo trovavo intollerabile. Ma ancor di più trovavo intollerabile la mia ipocrisia: io non ho mai pensato di poter salvare il mondo, ma ho sempre pensato di dover fare la mia parte. Per la paura dell'Olocausto, non la stavo facendo. Mei è una di quelle (centinaia) di morti di transfobia delle quali non si parla. Ve lo racconto sia perché il personale è politico, sia perchè Mei la conoscevamo tuttə. Al TDoR dell’anno successivo, il 2021, raccontai in piazza la storia di Mei. Quell’anno avevamo reso Piazza della Scala un cimitero a cielo aperto, stampando 463 lapidi, scrivendo a mano su ognuna il nome e l’età di ogni vittima e posandole in terra. Durante la manifestazione, un ragazzo si avvicinò e ci chiese: «Avete una tomba in più?». «Certo». Prese la tomba, scrisse “Siria, 19” e la posò a terra, insieme a tutte le altre. Finita la manifestazione, ci raccontò la storia di Siria e ci disse che quel giorno era venuto da Torino solo per chiederci una tomba sulla quale scrivere “Siria, 19”. Nei giorni successivi controllammo: sulla stampa di Siria, come di Mei, non c’era traccia. Di Siria, come di Mei, lo sapevamo solo noi. Quante altre Mei c’erano? Quante altre Siria? Già 463 persone sono più di una persona trans morta in modo violento al giorno. Eppure, quante persone mancavano all’appello? Quante altre persone trans dovevano morire a causa di un sistema che non faceva la sua parte per garantire loro diritti fondamentali? Dal 2021 ad oggi le cose nel nostro Paese non sono cambiate, anzi, sono peggiorate. Il clima politico è cambiato, in peggio, e si sente. E, bisogna dire, è cambiato da entrambe le parti. Nell’ultimo anno questa violenza si è intensificata, le segnalazioni vengono da tutte le realtà locali nel nostro Paese. Segnalazioni che non sono mai state ascoltate né prese in considerazione da questo Governo, che davanti ad un’emergenza di questa portata ha spesso deciso, al contrario, di buttare benzina sul fuoco strumentalizzando la tematica trans* in favore di una propaganda ai danni delle stesse persone trans*.
Una propaganda che si traduce in atto pratico quando 22 consiglieri regionali lombardi decidono di presentare una mozione dal titolo «Interventi contro la diffusione dei regolamenti scolastici sulla C.D. “Carriera Alias”», che nel primo testo aveva tra gli obiettivi quello di, cito: «Richiedere agli istituti scolastici lombardi che aderiscono alla “carriera alias” di annullarne/disapplicarne il regolamento» e anche di «Intervenire con direttive regionali contro la diffusione nelle scuole della “carriera alias” ed eventuali progetti educativi ad essa connessi, ispirati alla teoria di genere»;
Ma anche quando 4 agenti della polizia locale di Milano decidono di picchiare ripetutamente e contemporaneamente una donna trans nonostante non stesse opponendo alcun tipo di resistenza e quando la risposta dell’assessore alla sicurezza del Comune di Milano in seguito all’avvenimento è “gli agenti, che erano in servizio, come ogni mattina, alle scuole del Parco Trotter, hanno ricevuto una richiesta di aiuto da alcuni genitori perché una persona mostrava atteggiamenti molesti nei confronti dei presenti”. In pratica, il Comune di Milano, al posto che avviare immediatamente un’indagine, ha sposato, sulla fiducia, la versione riportata dal SULPL (Sindacato Unitario Lavoratori Polizia Locale), che verrà poi smentita dalla Procura, che invece l’indagine l’aveva avviata immediatamente. Per farla avviare al Comune, è servita una settimana di proteste, 2 manifestazioni e un’ingente campagna comunicativa. Tutto questo per forzare il Comune a fare il suo dovere in un caso come questo: avviare un’indagine.
Ma anche quando, sempre all’interno del Comune di Milano, a distanza di quasi due anni, dall’approvazione della mozione presentata dalla consigliera comunale Monica J. Romano, il registro di genere non solo non è stato ancora messo a terra, ma non sembra essere nemmeno lontanamente vicino a una messa a terra.
La paura dell'Olocausto ho sempre pensato fosse legittima e con la morte di Mei il cambio di paradigma non è stato nel fatto che quella paura fosse sparita.
Quello che cambiò fu il mio sedermi a un tavolo con me stesso e dire: sono pronto all'Olocausto.
Se state pensando "Che scenario desolante". Sì, vi do ragione: lo è. È desolante vivere in basso nella scala del privilegio. Abbiamo però due scelte: raccontarci una favola nella quale a tratti ci dimentichiamo e a tratti ci lamentiamo di quella mancanza di privilegio, oppure agire, fare la nostra parte, raccogliere quella rabbia e quella paura, per abbracciarla, impugnarla, incanalarla.
Io, tra le due, ho scelto la seconda e spero che questo testo, seppur breve, vi permetta di comunciare, sempre di più, a scegliere la seconda e a farlo insieme. Perché insieme siamo più fortə.
Paradossalmente, è proprio abbracciando le mie paure che ho iniziato a fare attivismo.
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